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ghiera comune mai si appoggiava al banco; nelle solitarie prostrazioni dinanzi al SS. Sacramento stava in positura scomoda•. Era puntualissimo nell'intervenire alla disciplina e austerità praticate nei venerdì di Marzo: se non l'avessi esentato nell'ultimo anno di sua vita, avrebbe continuato, benché carico d'acciacchi all'inverosimile. Cosi ci ricorda il padre Ermenegildo, che doveva ripetere il solito ritornello: Ma, Padre mio, lei non può più fare ciò che faceva un tempo! E che cosa faccio di speciale? Bisogna pur impiegarsi! Di questo passo, dovremo presto ricoverarla tra gl'invalidi! Oh, faccia Iddio: ma io non ho mali da medico! 1 • Finirono per convincersi anche i frati, e lo lasciarono fare: i suoi non erano mali da medico, bensì mali d'amore, per i quali non c'è rime– dio. Ma nemmeno più stupivano dei grandi favori che Dio andava mol– tiplicando al suo servo. Giubilare nei patimenti Dal serafico san Bonaventura il padre Ignazio aveva appreso a perfe– zione quel grado di carità che il Santo chiama « ebrietas » (ebbrezza), espressa nel fatto, umanamente inspiegabile, che« l'anima cerca la pena anziché il diletto » (De tripl. via, c. 2, n. 10). Già l'aveva provata e anche ben definita quest'ebbrezza il padre san Francesco con la nota frase: « Tant'è grande il Bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto ». Con una semplicità incantevole il Maestro di Noviziato a Mondovì non esitava a spingere i giovani a questo grado d'amore, e il suo esem– pio ne facilitava il compito•. Anche al Monte di Torino continuò a insegnare ai confratelli la tattica di rendere amabili le penitenze della vita cappuccina. Il riflesso che ogni croce è un abbraccio ricevuto da Cristo crocifisso e un segno di predestinazione, il ricordo di san Francesco che chiede « per grazia » di poter sperimentare l'amore e il dolore della passione del Maestro, bastavano a padre Ignazio per fargli abbracciare le peni– tenze del suo Istituto non con uno stoico amen, ma bensì con un 172
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